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Home Rubriche Le lettere di Agata Pinnelli

Dal Piave a Vittorio Veneto. 1918-2018

Una vittoria, sintesi del sacrificio e dell’unità della Nazione.

Novembre 9, 2018
in Le lettere di Agata Pinnelli
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“Caporetto” fu una pagina dolorosa della Grande Guerra, per le istituzioni e per tutto il popolo italiano in uniforme e in abiti civili, ma nello stesso tempo una pagina di consapevolezza civica, di “Resurrezione“, come le dichiarazioni di alcuni combattenti confermano, perché da quel momento la guerra si caricò di elevati significati: “salvare la nostra terra e il nostro onore di italiani; la guerra di avventura politica si trasformò in difesa della nazione, della famiglia, della casa, coinvolgendo anche i soldati in rotta, coscienti di quanto fosse in gioco e se necessario sacrificare la propria vita“. Da qui la Resistenza che si alimentò lungo la linea del Grappa-Piave, un luogo, oggi per mettersi in ascolto silenzioso. “Esiste una legge fondamentale: non si trasformano di colpo i vinti in vincitori, – scriveva Antoine de Saint Exùpery sotto il peso di un’esperienza ancora più drammatica, quella della Francia 1940 – l’esercito che si ritira non è più un esercito, perché una ritirata distrugge tutti i rapporti materiali e spirituali che collegano gli uomini fra di loro. Sono le riserve, semmai, che salvano la situazione sostituendo i reparti battuti, che vengono man mano recuperati per essere riordinati“. Ma se nell’immediato dopo Caporetto, anche le riserve erano costituite proprio dagli ex fuggitivi e la loro resistenza fu vittoriosa, ciò significa che “da sé e da solo il soldato per sua virtù riprese la sua coscienza morale e il suo valore alla prova immediata di una sanguinosa e lunga battaglia“ – concluse dopo anni di riflessione il generale Giardino, dal momento che, come diceva Antoine de Saint Exùpery, “la disfatta non solo divide gli uomini dagli uomini, ma divide l’uomo da se stesso”. Questa prima resistenza sulla linea Grappa-Piave (dal 10 al 13 novembre 1917) ad opera della IV Armata, logorata dalla ritirata, e dalle unità costituite con gli uomini provenienti proprio da quelli della II Armata travolta, bastò al generale Giardino per legarsi ad essa per sempre, tanto che si fece seppellire tra i suoi caduti sulla cima del Grappa, lasciando vuoto il basamento del monumento che gli è stato dedicato.

I soldati della resistenza Grappa-Piave di novembre (1917) e del solstizio (1524 giugno) ebbero la sensazione, come afferma Mario Silvestri, di combattere una guerra diversa, caratterizzata da autonomia concessa dai Comandi superiori alle Divisioni e da queste alle minori unità; all’appoggio reciproco che esse si diedero prestandosi i reparti; alla tattica della difesa elastica insieme ad una propaganda ben contestualizzata sia nel linguaggio sia nei contenuti per le masse dei soldati provenienti da tutta l’Italia che per la prima volta si trovavano fianco a fianco a combattere. Infatti essa si coniugò a temi come la famiglia, l’assegnazione delle terre ai contadini, la casa, la propria terra, la concessione del diritto di voto a tutti i mobilitati, compresi i minorenni; a scritte come “meglio vivere un giorno da leone che cento da pecore“; a slogan “perdere avrebbe voluto dire non avere più grano e lavoro, imposte elevate per pagare fortissime indennità, vanificare la morte di tanti soldati”; invece “vincere significava benessere, liberare le terre irredente“. A tutto questo si aggiunse un addestramento più solido controbilanciato da una serie di benefici: licenze frequenti, vitto migliore, disciplina elastica.

Con la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera (1918) l’attesa di una offensiva austriaca divenne sempre più trepida, l’unica incertezza era la parte del fronte su cui si sarebbe scatenata, scelta che si concretizzò sulla linea Grappa-Piave in una grande offensiva austro-ungarica, sollecitata dall’alleato tedesco. La battaglia, denominata battaglia del solstizio (15-24 giugno), vide in azione tre protagonisti: l’esercito attaccante (austriaco), l’esercito difensore (italiano), il Piave, il quale, complice la pioggia, si schierò, etichettato come “italianissimo“, dalla parte dei difensori, rendendo l’attraversamento delle sue acque, a volte impossibile, a volte difficile, sempre lento, mai agevole. Infatti in un primo momento la battaglia fu caratterizzata dai ponti, dalle passerelle ripetutamente costruite dagli attaccanti e distrutte dai difensori o dal fiume. In seguito il fuoco di proiettili e bombe italiani si sostituì all’acqua del fiume nel chiudere i passaggi riaperti, di contrastare e mettere fuori combattimento il nemico fin quando resistevano le forze materiali e morali per farlo.
Il solstizio confermò il successo avuto a sorpresa nella battaglia di arresto di novembre. La vittoria per la seconda volta si presentò come frutto di una resistenza ben organizzata, da tutti condivisa, proprio perché fatta sul proprio territorio di vita, non più privo di senso come le precedenti battaglie montane e carsiche dell’altopiano dell’Isonzo. Tale resistenza fu l’inizio della grande speranza di tutti e di ognuno: la possibilità di una conclusione vittoriosa, fino ad allora solo sognata. Questo risultato fece nascere due domande: di chi fosse il merito di quell’evento e come fosse stato possibile. Il generale Diaz e Prezzolini furono d’accordo nel ritenere che il merito fosse dei soldati prima di tutto, dei comandi in sott’ordine, che si mostrarono capaci di iniziativa.

Questa battaglia significò l’avvio della vittoria: sulle rive del Piave gli italiani avevano ritrovato se stessi, tutti, non solo coloro che ne furono coscienti e contenti, se alla fine della sua lunga e significativa esperienza politica e militare, Parri potrà affermare che “quella del solstizio fu l’unica vera battaglia nazionale di cui il nostro paese si può gloriare”. Un’altra risposta si incaricò di darla, anch’essa tempestivamente, una persona che visse in quelle ore la tempesta di sensazioni, di sentimenti e speranze nella quale in molti si trovarono immersi felicemente confusi. Ma che come nessun altro fu capace di esprimerla, grazie ad un moto creativo attraverso la forma favolistica, popolare di una canzone: la leggenda del Piave, rinata a Napoli ad opera di E. A. Mario, che seppe fondere insieme i tanti frammenti di pensiero e le parole che esprimevano l’opinione di tutti e farli precipitare sotto forma di versi e note, in concetti riconoscibili dalla gente come propri. La canzone divenne un mezzo efficace di propaganda e di sostegno dello spirito pubblico e di quello delle truppe in particolare. Il testo rappresentava il luogo e l’occasione di una guerra adatta a loro, quella degli aggrediti. La leggenda non seppe registrare solo gli stati d’animo ed evocarli, ma addirittura promuoverli meglio di qualunque propaganda. Essa, perciò, è stata strumento efficace di nazionalizzazione delle masse anche a prezzo di alcune forzature, come il fare apparire monolitico il modo di pensare e di “cantare” di tutti gli italiani; l’attribuire quell’unico modo a tutto il periodo della guerra, pur non vero. Però proprio gli effetti di quelle forzature, le attribuiscono il posto che occupa nella memoria della Grande Guerra. “Era una storia un po’ nebulosa, ma magnifica” – commenterà il generale Giardino che si affrettò ad adottarla come inno dell’Armata.

L’esercito italiano dopo aver consolidato la linea difensiva del Piave, nell’autunno del 1918, passò alla controffensiva che si sviluppò su larga scala, dapprima sul monte Grappa, poi a partire dal 26101918 oltre la linea del Piave nell’area di Vittorio Veneto, dove l’esercito imperiale dopo aver cercato inutilmente di contenere l’avanzata italiana, cedette di schianto, ormai in preda al caos. Era il 3111918, firma dell’armistizio, seguito dalla cessazione delle ostilità il 4111918.

Vittorio Veneto fu un momento di grande significato simbolico, psicologico, più vasto della sua portata militare: essa consentiva al paese di uscire dal conflitto non sotto il peso di una sconfitta bruciante, ma sull’onda di un’offensiva coronata da successo, che seppelliva definitivamente il ricordo dell’insuccesso di Caporetto. Essa, senza togliere il grande valore della resistenza precedente, era e sarebbe rimasta l’unica autentica vittoria di rilievo dell’intera storia nazionale, a parte alcune battaglie risorgimentali, una vittoria ottenuta contro un esercito e un impero che all’inizio del secolo era tra i più potenti del mondo. Caporetto aveva segnato il culmine delle paure, Vittorio Veneto diede fiato all’orgoglio nazionale. L’aver battuto un nemico che attendeva l’attacco con il favore del fiume e aveva visto fallire perciò la sua strategia, sono fattori sufficienti per ritenere provato il significato militare oltre che simbolico di Vittorio Veneto. Ciò che era mancato nel compimento del Risorgimento, una vittoria diretta sull’Austria e una sconfitta del suo esercito, era stato finalmente ottenuto sulle due sponde del Piave in tre battaglie, di cui l’ultima saldò “vittoria sul campo e resa del nemico“, il che rafforzava il significato militare della sconfitta austro-ungarica.

Nel corso del centenario della Grande Guerra la ricerca storiografica si è arricchita, puntando l’attenzione sugli effetti disumani e devastanti subiti da tutte le popolazioni del pianeta, anche quelle neutrali, proprio attraverso i diari dei combattenti che ne hanno evidenziato la gigantesca mostruosità, che appare ai nostri occhi ancora misteriosa, come affermava lo storico inglese John Keegan, uno dei più esperti studiosi del fenomeno bellico: “E’ un mistero il motivo per cui milioni di soldati, anche dissidenti continuarono a combattere fino alla fine (questa una realtà) e lo fecero, perché animati dal cameratismo, da legami di mutua dipendenza e sacrifici di sé, più forti di qualsiasi amicizia nel tempo di pace o di periodi più fortunati. Questo è l’ultimo mistero della prima Guerra mondiale. Se riusciamo a capire il suo amore insieme al suo odio, saremo più vicini alla comprensione, al mistero della vita umana“.

Pertanto la memoria del centenario della Grande Guerra è un punto di partenza per fecondare una nuova mondialità dell’Europa, diversa da quella che la caratterizzò nel ventennio 18981918, ma a servizio della Pace, del Diritto, della Sicurezza Ambientale, della Democrazia, della Dignità senza distinzione di genere, della Cultura della Vita. Una nuova mondialità che metta al centro la “persona” come valore assoluto in ogni ambito delle sfide tecnologiche; una mondialità al servizio di una civiltà che orienti l’intera umanità nel rispetto della diversità di ogni popolo, senza alcuna supremazia militare, politica, economica, culturale di una collettività umana su altre popolazioni, come è avvenuto nel passato recente, con la convinzione di essere una civiltà universale, destinata a guidare l’intera umanità.

Oggi nessuna grande potenza in declino o in ascesa può vantare e giustificare un’egemonia mondiale. La mondialità odierna sembra essere divenuta unicamente l’attributo di un presente disordinato e di un futuro minaccioso, accumunati nella dimensione planetaria. I popoli in tutto il mondo aspirano a realizzare una mondialità che non sia la supremazia planetaria di una potenza imperiale, ma la mondialità del genere umano nella libertà e nella dignità, traguardo scalfito, ora più che mai, nel DNA della nuova umanità.L’aspirazione è nobile, ma se non si realizza è illusione, e la delusione può diventare malvagia. Ce lo insegna la storia del passato. Questa è la sfida che attende l’Europa, concretizzata in ciascun cittadino europeo.

Dedicato alla memoria del concittadino
caporale maggiore Pinnelli Michele
caduto nell’XI battaglia dell’Isonzo, 1917
Agata Pinnelli

 

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