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Andria: Un giorno in Pronto Soccorso

La descrizione precisa ed articolata di cosa possa accadere ad un cittadino

Dicembre 23, 2020
in Notizie
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Andria: Un giorno in Pronto Soccorso
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Un giorno in Pronto Soccorso, ad Andria, è la descrizione precisa ed articolata di cosa possa accadere ad un cittadino che si rechi in tale struttura ospedaliera. Tutto quello che la gente non dice ma che accade e purtroppo accade veramente. Un racconto reale di quella che è una realtà che tutti conoscono ma della quale (quasi) nessuno ne parla. Paura di parlarne? Timore o forse troppo concentrati sui propri malesseri? Sta di fatto che qualcuno, anche questa tristissima storia, doveva raccontarla e lo faccio io. Lo faccio di nuovo io avendolo provato ancora una volta sulla mia pelle, come sempre.

La mattina di martedì 22 dicembre 2020 un signore di 57 anni, abituale donatore di sangue, si reca presso il centro trasfusionale della città di Andria per una donazione, essendo trascorso oltre un mese dalla sua negativizzazione al covid che lo aveva colpito ma dal quale era guarito, dopo un’esperienza drammatica causata dalla malattia. Nel controllo di routine che precede la donazione di sangue gli vengono riscontrati elevati valori pressori tali da indurre i medici del centro trasfusionale a consigliargli un immediato contatto con il vicino Pronto Soccorso per la valutazione del caso. Recatosi al Pronto Soccorso verso le ore 11,20 incomincia questa storia drammatica, penosa e persino al limite del ridicolo. Premesso che stiamo parlando di una struttura che verrebbe qualificata quale “eccellenza” del territorio, ciò che è accaduto il giorno martedì 22 dicembre 2020, che pare essere addirittura diventata questione di ordinaria disorganizzazione, è qualcosa di inqualificabile e deplorevole. Il nostro malcapitato (così definito per brevità ma in modo significativo) entra in Pronto Soccorso e l’infermiera lo fa accomodare su una specie di poltrona non proprio integra. Dopo qualche minuto gli effettua la misurazione dei parametri quali: pressione arteriosa, frequenza cardiaca, saturazione dell’ossigeno nel sangue. Già alla prima misurazione i parametri pressori non rientrano in quelli cosiddetti normali e già sorge il primo terribile dubbio: “quel costosissimo apparecchio robot multifunzione sarà attendibile?”. La domanda non è né tendenziosa né provocatoria ma drammaticamente realistica e fra poco si capirà il perché. Dopo questa prima misurazione lo lasciano restare in quella stanzetta situata alla sinistra dell’ingresso del P.S. ma non da solo, con accanto un’altra poltrona destinata ad altro paziente. Già in questa situazione le cose cominciano ad apparire nella loro gravità. Infatti mentre il nostro malcapitato viene lasciato lì per ore fino a quando non si liberi il primo medico disponibile disposto a “visitarlo” (il virgolettato è d’obbligo ed anche questo sarà spiegato nel corso del racconto) il nostro malcapitato resta lì ad ascoltare, forzatamente ed involontariamente, tutto ciò che accade al paziente che è accanto a lui, a pochi centimetri dalla sua poltrona semisfasciata. Alla prima paziente di una certa età vengono effettuati su quella poltrona alcuni esami con i sanitari che parlano in modo tale che tutte le informazioni sanitarie “non abbiano segreti”, così come accade quando su quella stessa poltrona si avvicenda una ragazzina adolescente ed anche in quel caso la privacy va a farsi fottere ed il racconto di quanto accaduto alla ragazzina diventa non più assoggettato a quella riservatezza che dovrebbe essere imposta ma quasi di pubblico dominio. Dopo alcune ore di stazionamento in quel buco di stanzetta arriva il momento in cui il medico si rende disponibile ed ecco che ora ti aspetti una visita da parte di costui. Macché! Un’infermiera cerca lo sfigmomanometro (misuratore di pressione aneroide palmare) ed ecco che incomincia un altro atto della commedia tragicomica: il tradizionale apparecchio per la misurazione della pressione arteriosa non va. Non si svuota dell’aria contenuta e dopo vari tentativi da parte dell’infermiera di far fuoriuscire l’aria dall’apparecchio addirittura mettendosi sopra con parti del proprio corpo, la stessa infermiera riferisce al dottore, incollato alla sua sedia dalla quale non si è mai alzato neppure per un secondo per visitare il malcapitato non avendolo mai fatto, che quell’apparecchio non funziona e presenta anche una lesione. A questo punto incomincia un’interlocuzione semiseria tra il medico e l’infermiera con il primo che addirittura le chiede di procurarsi ago e filo per riparare l’apparecchio difettoso. Nonostante quel difetto l’apparecchio viene ugualmente usato ma le misurazioni vengono ripetute molte volte con risultati diversi (evidentemente era un problema di quell’apparecchio malfunzionante). Ecco che si passa alla misurazione attraverso il cosiddetto robot multiuso (chissà quante migliaia di euro costano quei dannati apparecchi!) e continua la scena. Viene rilavata una misurazione e il medico, che si limita a prendere appunti sui dati forniti dall’infermiera restando impeccabilmente incollato alla sua sedia, ritiene di non somministrare alcun farmaco al paziente il quale viene sottoposto solamente ad un elettrocardiogramma e gli viene prelavato del sangue. Anche in questa circostanza si potrebbe raccontare di un’altra scenetta comica quando non si trova l’ultimo accessorio necessario per eseguire l’elettrocardiogramma.

Al termine di questi esami sommari, senza che il medico abbia ritenuto opportuno o perlomeno rispettoso alzarsi e visitare il paziente, peraltro paziente ex covid quindi anche un interesse professionale che evidentemente potrebbe essere venuto a mancare nella circostanza, il malcapitato viene trasferito in quella sala tristemente famosa allocata nel corridoio sulla stessa direttrice della stanza del medico. Una stanza di una sessantina di metri quadrati ove vengono trattenuti, anche per moltissime ore, coloro che attendono un ricovero in reparto, un trasferimento in altro ospedale o semplicemente lasciati lì non si sa a far cosa per moltissime ore, come appunto accaduto al nostro paziente malcapitato che racconta questa triste storia. Un ambiente fortemente contaminato da aria irrespirabile, al punto che alcuni soggetti chiedono di stare nel corridoio invece che nella stanza ma questo viene loro impedito dal personale che si alterna nella stessa stanza e per i corridoi. Peraltro personale indistinguibile tra portantini, infermieri, medici ed altre professionalità in quanto quasi nessuno di loro indossa sul camice il cartellino di riconoscimento. Se dovessero essere individuati per il loro atteggiamento non sarebbe difficile confondere l’infermiere con il medico e viceversa. In quella stanza si consuma di tutto: pazienti gravi che si lamentano del proprio dolore ed altri che non sanno neppure in quella stanza, per moltissime ore, cosa ci stanno a fare seduti ad una sedia peraltro scomoda. A proposito di sedute, mentre per essere visitati dal proprio medico curante bisogna fissare un appuntamento ed essere ricevuti in numero assolutamente limitato, nel pieno rispetto delle norme anticovid così come accade in altri contesti dove la precauzione è d’obbligo e le regole sono rigide, in quello stanzone del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Andria questa regola non vale. A parte i pazienti allettati, altri sono seduti uno accanto all’altro in palese violazione delle norme in materia di distanziamento. Persone anziane sedute gomito a gomito in un ambiente evidentemente insufficiente per la sua superficie destinata ai pazienti seduti su sedie e poltrone, con aria palesemente viziata e senza areazione adeguata. Voglio premettere che durante le operazioni di rilevazione dei parametri l’infermiera del P.S. sul nostro malcapitato effettuò anche un tampone rapito Covid (anche di questo parlerò più tardi perché c’è un aneddoto da raccontare). Poiché l’esito di quel tampone non lo si conosceva subito la domanda viene spontanea: siamo sicuri che quella gente (la maggior parte anziana anche con gravi patologie), assembrata in quello stanzone di attesa del proprio destino, fosse immune da Covid-19 e che l’ambiente fosse immune da contaminazioni? Lascio la domanda in sospeso affidandone le conclusioni a ciascuno dei lettori (e magari a qualche Magistrato che legge) e vado avanti nel triste racconto…. Passano le ore, le lunghissime ore e, se li conti, anche i minuti ed il nostro malcapitato resta sempre nello stanzone senza conoscere il proprio destino, senza sapere cosa stesse a fare in quel luogo visto che alla sua richiesta di ricevere una visita cardiologica neppure gli veniva data risposta e comunque, successivamente, gli veniva negata. Ad un certo punto arriva l’infermiere con il robottino tutto fare costato migliaia di euro o chissà quanto ed effettua una nuova misurazione della pressione. Anche in questa circostanza la prima prova, poi cambia il robottino una seconda volta e continua ad affermare davanti a tutti che quegli apparecchi non sono attendibili. L’infermiera addirittura, durante la misurazione della pressione ad altro paziente in sala, afferma apertamente che non sono neppure tarati quindi in Pronto Soccorso ad Andria si utilizzerebbero apparecchiature costate chissà quanto ai contribuenti che non sono tarate e danno risultati non attendibili. Allora un’altra domanda sorge spontanea: quanto delle cure mediche, delle decisioni di somministrare o meno un farmaco (come accaduto al nostro malcapitato paziente che non ha ricevuto neppure una goccia di farmaco in tutta la sua permanenza al P.S. nonostante la pressione, in alcune misurazioni in tale struttura abbia superato i 170 e fosse arrivato in P.S. con oltre 180 della massima su 132 minima) dipendevano da quelle misurazioni sballate? Perché continuare ad utilizzare apparecchiature, e si parla non di un solo apparecchio, che non sono tarate e che quindi sono inattendibili? (affermazioni dell’infermiera ma anche del medico).

Assurdo, assurdo e persino penoso se consideriamo che stiamo parlando della salute delle persone.

La disavventura del nostro malcapitato volge al termine ma non senza ulteriori colpi di scena.
Infatti, dopo essere rimasto già per quasi otto ore in quel luogo senza neppure aver avuto notizia di cosa ci stesse a fare e perché trattenuto quasi al limite di un sequestro di persona, un’infermiera lo chiama nel corridoio e, poggiando un foglio su una parete che andrebbe seriamente ripulita, gli chiede di firmarlo e di andare via. A parte l’indelicatezza del gesto e l’approssimazione in un comportamento che in un Ospedale non dovrebbe accadere, il nostro malcapitato rifiuta di apporre la firma su quel foglio chiedendo di poter perlomeno parlare mezzo minuto con il medico che lo aveva avuto in carico al Pronto Soccorso (lo stesso che non lo ha mai visitato e che non si è mai scollato dalla sedia) perché, affermava il paziente, non si riteneva in condizione di poter lasciare il Pronto Soccorso accusando malessere quindi riteneva di dover riferire al medico quella sua condizione, anche in via precauzionale per responsabilità che avrebbero potuto derivarne proprio per il medico stesso qualora fosse stato dimesso in condizioni precarie. A quel punto l’infermiera dice al nostro paziente di riaccomodarsi nello stanzone, il quale nel frattempo si riempiva sempre di più con la stessa se non più grave violazione delle norme anti-covid e di privacy, e di lì a poco gli viene rimisurata la pressione arteriosa: il risultato? 171/97. Praticamente al Pronto Soccorso, dopo aver trattenuto il paziente per quasi nove ore, avrebbero voluto dimetterlo con una pressione sanguigna di 171/97? INCREDIBILE! A quel punto l’infermiera riferisce al paziente di attendere di parlare con il medico e questa ulteriore attesa dura, pensate, quasi un’altra ora e mezza. Anche in questo ulteriore lasso di tempo, che si aggiungeva alle già oltre sette ore trascorse in quel luogo, al nostro malcapitato veniva imposto di rimanere nello stanzone le cui caratteristiche sono già state ampiamente descritte sopra. Arriva il momento in cui nello stanzone giunge finalmente il medico che aveva in carico il nostro malcapitato il quale gli riferisce ancora una volta che avrebbe potuto andar via perché….udite! udite! la misurazione dell’apparecchio che segnava la pressione di 171/97 non era attendibile. SI, PROPRIO COSI’. IL MEDICO CHE DICE CHE QUELLA MISURAZIONE, ovviamente fatta dall’Infermiera, NON E’ ATTENDIBILE! A quel punto il nostro malcapitato decide di attende il cambio di turno del medico per tentare di avere un’interlocuzione più razionale e professionale rispetto a quanto accaduto sino ad allora. Avviene il cambio di turno del medico ed ecco che il malcapitato si reca da costui per ricevere informazioni sul referto quindi conoscere cosa sia accaduto in quelle lunghissime quasi nove ore di permanenza in Pronto Soccorso nonché l’esito degli esami ematologici, del tampone anticovid e quant’altro. Incurante di un altro paziente sofferente sdraiato sulla barella nella stanza del medico che qualche minuto prima lo stava visitando, anche in questa stanza in palese violazione della privacy in quanto anche durante la visita veniva sempre lasciata la porta aperta di almeno quindici centimetri con tutte le conseguenze del caso vista la grande mole di gente che attraversa quel corridoio, il medico di turno fa entrare il nostro malcapitato e gli chiede di firmare un foglio (lo stesso, identico che avrebbe voluto fargli firmare l’infermiera sul muro del corridoio). A quel punto il nostro malcapitato chiede al medico quale fosse l’esito del tampone anticovid e il medico inizia la propria ricerca sul computer senza trovare l’esame affermando, dopo averlo verificato, che tale esito dell’esame rapido non era neppure stato indicato nel referto redatto dal medico che lo aveva in carico. Parte la ricerca di tale esito ma nulla di fatto. Allora l’Infermiera, che era accanto al paziente sofferente sdraiato in barella, afferma che se non era indicato nel referto il risultato dell’esame significava che il medesimo era negativo. A quel punto il nostro malcapitato chiede alla stessa Infermiera come faccia ad affermare una cosa del genere così come insiste perché venisse certificata quella negatività espressa solamente a parole quindi non attendibile. Non solo, nel visionare il foglio sul quale si pretendeva che il nostro malcapitato apponesse la propria firma lo stesso verificare l’aggiunta a penna di frasi che non corrispondevano alla realtà dei fatti e comunque non rappresentavano in modo compiuto l’accaduto quindi decontestualizzate e persino lesive della dignità del paziente stesso il quale, giustamente, rifiuta di firmare tale foglio contenente quelle dichiarazioni aggiunte a penna e sicuramente oggetto di ulteriore approfondimento.

Un’odissea che meriterebbe davvero un immediato accertamento di quanto accaduto e di quanto, da tempo anche sulla scorta di umori esternati in modo generalizzato e pubblico, stia accadendo in quel Pronto Soccorso se non nell’intero Ospedale della città di Andria. Non è raro, infatti, apprendere di lamentele e di difficoltà vissute anche direttamente dagli operatori sanitari rispetto alla carenza o inadeguatezza di materiali, di forniture e persino delle minime, necessarie, attrezzature e strumenti di lavoro.

L’appello, quindi, non è rivolto solo ai cittadini che vivono sulla propria pelle queste disavventure o che abbiano vissuto queste stesse se non più gravi disavventure, che invitiamo a denunciare formalmente e pubblicamente senza timori o paure di ritorsioni, ma anche e soprattutto ad un mondo politico ed istituzionale distratto, spesso incapace di svolgere il proprio primario compito che è quello di controllare e di verificare l’efficienza delle strutture pubbliche e soprattutto le garanzie per gli utenti, specie se trattasi di utenza fragile, ammalata e afflitta da problematiche gravissime. Ai responsabili della struttura ma dell’intero Sistema Sanitario, locale e regionale ma anche nazionale, il nostro appello affinché si rendano realmente conto di quale sia la situazione e di quale condizione di assoggettamento, anche psicologico, venga vissuto dai pazienti e dai fruitori di tali strutture pubbliche.

Gli annunci mediatici, le apparizioni e le messe in scena non vanno d’accordo con l’efficienza e con la garanzia dei diritti negati. Quindi si prenda coscienza di un fallimento e se ne traggano le dovute, conseguenti decisioni. Definitive.

E’ accaduto ad Andria e chissà in quanti altri luoghi della Puglia accade. Di sicuro non accade dove l’efficienza e le buone prassi sono consolidate.

Se i nostri ammalati vanno a farsi curare in altri luoghi il motivo c’è. Purtroppo il motivo c’è!
Savino Montaruli- Associazione Io Ci Sono!

Tag: ASL BTOspedale Bonomo di Andria
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