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La Grande Guerra, a cento anni da Caporetto

Memoria di un trauma nazionale, coscienza del presente

Novembre 7, 2017
in Le lettere di Agata Pinnelli
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Canosa: conferita la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto.
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Una scelta non a caso quella del 4 novembre per celebrare l’Unità Nazionale e le Forze Armate. La Grande Guerra! La prima vera esperienza collettiva, la prima tragica pagina di una storia comune: annullamento di ogni individualità; monotonia di una guerra ripetitiva che produceva la morte come una catena di montaggio, in cui non si sapeva se fosse più insopportabile il rischio o la nuda stanchezza; la paura degli assalti dai quali era assai improbabile tornare vivi; la consapevolezza che anche disertare non era facile, perché richiedeva coraggio, determinazione e una buona dose di fortuna; detenzione di massa: come erano milioni gli uomini mobilitati, altrettanto i prigionieri deportati nei territori europei, reclusi per mesi ed anni in condizioni tristissime. Una guerra seria, una guerra di indipendenza, secondo alcuni storici, che completò il nostro territorio e contribuì a cementare il senso di Unità nazionale, proprio con la consapevolezza di grandi cose fatte insieme o di sacrifici, sofferenze patiti insieme. La Prima Guerra Mondiale ha dimostrato che gli italiani sanno battersi fino al sacrificio per cause giuste, ciò ha elevato il prestigio dell’Esercito Italiano, anche all’estero dove i nostri soldati sono i migliori negli interventi operativi in cui vengono coinvolti durante le missioni di Pace. L’Italia nasceva nel segno della morte di massa a cui tutti avevano pagato il tributo.

“La guerra aveva reso più viva l’idea della patria, pertanto non più ora immortalata negli stemmi di pubblici uffici, nelle bandiere tricolori, nei ritratti di sovrani, ma nei monumenti che ricordavano in ciascun luogo i caduti” – affermava Benedetto Croce. La morte aveva avvicinato gli italiani alla nazione. La lezione era stata dura, una lezione fatta più di cose (le trincee, il sangue, le attese delle licenze, i certificati, gli assalti, le fucilazioni, i manicomi, i tribunali militari) che di parole, anche se queste sono intervenute per spiegare fatti che lasciavano attoniti. Quest’anno, centenario del trauma nazionale della disfatta di Caporetto con le sue terribili conseguenze, non si può non parlarne. Il 1917, anno fatidico per tutti gli italiani, fu caratterizzato da una grave sconfitta: Caporetto, in cui una forza massiccia di uomini, armati di tutto punto come nessun altro esercito italiano lo era mai stato, aveva cessato bruscamente di combattere, permettendo agli austro – ungarici, rafforzati dall’arrivo di un contingente tedesco, di rompere la linea del nostro fronte orientale, con la conseguente invasione del territorio del Friuli Venezia Giulia. La responsabilità fu addossata, calunniosamente secondo i Supremi Comandi, alla mancata resistenza dei nostri reparti che si erano arresi senza combattere al nemico. Tale sconfitta di fronte all’offensiva nemica non era soltanto un evento militare, ma una tragedia morale: la rotta era rapidamente diventata ingovernabile. La rottura del fronte determinò il dramma del Friuli: cominciarono le migrazioni di tantissimi profughi civili; i saccheggi, le depredazioni dilagarono dappertutto ad opera sia di sbandati italiani in ritirata, sia da molti reparti combattenti rimasti senza cibo, sia dalle truppe nemiche che completarono l’opera di violenze, comportandosi come Lanzichenecchi del XX secolo. La popolazione non partecipò ai combattimenti, ma aiutò come potette le truppe italiane, prendendosi cura dei feriti (anche nemici), nascondendo i soldati che tentavano di sfuggire alla prigionia, distribuendo anche il poco cibo che avevano. Furono questi in ordine di tempo i primi partigiani d’Italia, fu un dato riconosciuto da tutti che indistintamente l’ammirarono e l’esaltarono, poiché senza alcun colore era rivolto ad un unico bene: la lotta contro lo straniero che incalzava la Patria, la quale per fortuna non contava allora che un partito, quello degli italiani. Caporetto dimostrò che i tedeschi, quando giunsero sul fronte italiano, erano già addestrati a fare una guerra diversa da quella che era stata combattuta fino agli inizi del 17, che i nostri comandi tenacemente continuavano ad applicare per superbia autoritaria e pigrizia intellettuale. Il nostro fronte cedette quando i soldati si scoprirono impreparati a combattere contro un nemico che usava metodi nuovi, la cosiddetta tattica elastica che lasciava maggiore autonomia ai comandanti dei vari reparti e la tecnica dell’infiltrazione di piccoli nuclei.

Il 4 novembre 1917 il senatore Franchetti, fautore dell’intervento italiano si suicidò, perché affranto dalla catastrofe di Caporetto: aveva settant’anni, un’esperienza emblematica, ne aveva dedicato moltissimo come studioso e come politico all’emancipazione dei contadini e del Mezzogiorno, lasciò le sue terre ai contadini che le lavoravano e il suo patrimonio ad un istituto di beneficenza. “È finita per noi! Dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno di una più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo sbagliato. Costruivamo nel vuoto. Gli italiani non erano preparati, ci facevamo delle illusioni, noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo pagare e scomparire“. Parole di Bissolati, un socialista interventista, volontario e combattente a 58 anni, assertore del principio di nazionalità, tanto che dopo la guerra si oppose all’annessione all’Italia dove la popolazione non era a maggioranza italiana.

Il proposito di suicidio non sfiorò il “generalissimo Cadorna“, capo dello stato maggiore dell’esercito, che addossò la colpa della disfatta alla viltà dei soldati e alla propaganda disfattista dei neutralisti e dei pacifisti. Rimase inflessibile nella strategia tattica rivelatasi sbagliata. L’idea che in una guerra così logorante bisognasse tener conto del “fattore umano“, dello stato d’animo delle truppe e che questo fosse un fattore condizionante dei calcoli tattici e strategici non lo sfiorava per nulla. Non esercitava un comando moderno, decentrato, condiviso nell’ambito della pianificazione operativa. Nei momenti di confusione si cerca di scaricare le responsabilità sugli altri. Le colpe c’erano e vanno distribuite ai generali, agli ufficiali; non esistono soldati bravi e cattivi, esistono soldati preparati, responsabili, dotati di diritti, rispetto e dignità. “Catastrofi di tal misura non si esauriscono in una causa occasionale, ma sono il risultato di fattori complessi, molteplici, remoti” – scriveva Giuseppe Prezzolini, interventista e volontario in una delle più acute analisi delle carenze militari, politiche e sociali che avevano reso possibile la trasformazione di una disfatta militare in una catastrofe nazionale che pareva travolgere l’esistenza stessa dell’Italia unita, mostrando la fragilità delle sue precarie fondamenta statali e morali.

Ma Caporetto racchiude un’altra verità: a poche settimane dalla rotta, l’esercito ritrovò fiducia in se stesso e combattè valorosamente sul Grappa e poi sul Piave sbarrando l’avanzata nemica e fu pronto nella battaglia del 1918 a Vittorio Veneto che decretò la vittoria. Il soldato italiano sembrò irriconoscibile e ciò non fu dovuto ad incitamenti patriottici, ma ad una rivoluzione spontanea di autoorganizzazione stimolata dall’esperienza sul campo. Secondo Mario Silvestri, storiografo della Grande Guerra, la “Storia mai potrà disconoscere che il soldato italiano non per virtù di provvedimenti di Comando o di Governo, né per favorevole rivolgimento di situazioni militari, ma da sé e da solo, ben inteso sotto i suoi comandanti diretti di unità e reparti, riprese la sua coscienza morale e il suo valore istantaneamente alla prova immediata di una lunga e sanguinosa battaglia per le truppe in linea e al controllo immediato di una rapida e salda ricostituzione per le truppe sbandate dal rovescio“. Sulle rive del Piave gli italiani avevano ritrovato sé stessi, tutti gli italiani, non soltanto quelli che ne furono coscienti e contenti, anche Parri alla fine della sua lunga e significativa esperienza militare partigiana e politica del secondo dopoguerra concluse che la battaglia del Solstizio (15-24 giugno 1918) sul Piave, fu l’unica vera battaglia nazionale di cui il nostro paese si può veramente gloriare.

Nel novembre 1917 alcuni studiosi e combattenti di vario orientamento costituirono un comitato per l’esame nazionale, col proposito di riscrivere la Storia Italiana dal Rinascimento alla Grande Guerra, alla luce della rotta di Caporetto. La premessa non era soltanto scientifica, ma esplicitamente politica, perché i promotori facevano risalire la responsabilità di Caporetto a cinquant’anni di malgoverno, di corruzione politica, di dittature parlamentari, di menzogne elettorali, di servilismo, di assenza di dignità … Lo stesso Benedetto Croce che pure era stato contrario all’intervento italiano, lodò “l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale” perché avendo da “sempre frugato con animo ansioso e doloroso le pagine della storia d’Italia” aveva potuto osservare “che la Storia, la vera storia d’Italia è quasi ignota a tutti“. Può apparire oggi ingenua l’iniziativa di un esame di coscienza nazionale per fronteggiare una disfatta militare. Eppure una simile ingenuità fu condivisa da Marc Bloch, uno dei più grandi storici del 900, di fronte al crollo della Francia invasa dalle armate hitleriane nel giugno 1940. Anche lui volle rendersi conto della “strana disfatta” domandandosi “di chi la colpa“. Anche lui come gli italiani predecessori dopo Caporetto pensava che la ricerca doveva svolgersi non solo nel campo militare, ma si doveva scavarne le radici più lontano e più in profondità. L’esame di coscienza portò Bloch a combattere nella Resistenza francese e a morire fucilato dai tedeschi dopo essere stato per mesi torturato.

A cento anni da Caporetto, a quasi ottant’anni dalla strana disfatta francese gli esami nazionali possono apparire ingenui o anacronistici. Tale può apparire anche il suicidio di Franchetti. Altre catastrofi ha subito l’Italia negli ultimi cento anni sia pure di diversa gravità: la Caporetto dell’8 settembre 1943; la Caporetto economica del 1973; la Caporetto politica del disfacimento della Repubblica. Ma non risulta che ci siano stati altri esami o se ci sono stati l’Italia non li ha superati. Forse per questo l’Italia vive da decenni sotto il segno di una perenne disfatta. Tentare allora un nuovo esame nazionale? La lezione di Caporetto è ancora attuale, ci coinvolge ancora. Il nostro paese è capace di sorprendenti rivincite di fronte alle battaglie che siamo chiamati a combattere, da quella della corruzione a quella del lavoro e della crisi economica, dello sviluppo del SUD, delle migrazioni. Queste diventano l’Italia Caporetto, quando a causa dell’ignoranza, della pigrizia, del rifiuto alla cooperazione, al dialogo, alla condivisione responsabile si persevera nel meccanismo di scoraggiamento, di inutilità delle proprie azioni, che provoca assenteismo, disinteresse verso le Istituzioni nazionali ed europee, nonché l’assenza di volontà nel contribuire alla rinascita del paese, a fortificare l’aspetto valoriale della nazione, che rende i cittadini preparati e responsabili.

Dalla memoria della Grande Guerra percepiamo uno stimolo a vivere con coraggio la nostra resistenza sul Grappa e sul Piave per dare un nuovo volto all’Italia attraverso l’Europa, la via maestra per sconfiggere i pericolosi nazionalismi nascenti e proiettarsi concretamente alle sfide del futuro sulla innovazione scientifica e tecnologica, sulla cultura del cibo, sul rispetto dell’ambiente e dell’ecosistema, sulla cooperazione, sullo sviluppo sostenibile, per assicurare il diritto di ogni uomo a vivere nella propria terra, ad una buona nutrizione, traguardo indispensabile per costruire la Pace. Infatti la fame è un focolaio di conflitti armati in varie parti del mondo, che fanno proliferare eccidi, spopolamenti, terrorismo, migrazioni … I nuovi rigurgiti nazionalistici e populisti non possono essere sottovalutati e coperti, perché un eventuale disatteso impegno concreto potrebbe essere molto pericoloso per il futuro della Umanità.La memoria della Grande Guerra ce lo insegna.
Agata Pinnelli
Reportage fotografico a cura di Savino Mazzarella

 

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