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Resistenza e Liberazione

25 aprile 1945 – 2015. Quale eredità?

Aprile 25, 2015
in Le lettere di Agata Pinnelli
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Resistenza e Liberazione
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[…] “In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie. Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione!
Dietro ad ogni articolo, voi, o giovani, dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, di Napoli, Roma …, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. Non è una Carta morta, è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani; nelle carceri, dove furono imprigionati; nei campi, dove furono impiccati; dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità; andate col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.” […]
Così si espresse accoratamente Piero Calamandrei, uno dei Padri della Costituzione italiana.
Sì, la Costituzione è l’eredità valoriale della Resistenza e del 25 Aprile, una data solo simbolica, perché la violenza e il dolore non finiscono d’un tratto, anzi le stragi – vendetta continuano in maniera più efferata ad opera dei militi fascisti e truppe tedesche in fuga, stragi che esponevano i civili a gravi rischi, come testimoniano massacri di donne e bambini. La Costituzione è una Carta sempre viva, che si contestualizza responsabilmente in ogni momento della nostra storia presente, perché i valori a cui si ispira, continuano a dirigere le scelte politiche che si intrecciano nel dinamismo quotidiano, fatto di libertà, legalità, uguaglianza, di rispetto dei diritti, di sviluppo dell’economia, di garanzia del lavoro e della giustizia, nonché di promozione della cultura, della tolleranza, della convivenza pacifica e solidale. Questa eredità coinvolge ciascuno di noi ad impegnarci responsabilmente nella costruzione di una vita migliore per tutti non rendendo vana quella speranza per la quale si sono battuti i nostri antenati.

È stato sempre rimarcato che la Resistenza ebbe “carattere popolare” e che senza la simpatia e la solidarietà di tanta parte della popolazione, essa non sarebbe potuta nemmeno nascere. Sicuramente molti italiani furono dominati soprattutto dall’orrore per una guerra civile che stava dividendo sanguinosamente il Paese: fascisti italiani contro altrettanti antifascisti italiani. Vi furono casi in cui i partigiani poterono contare sull’aiuto della popolazione; altri in cui vennero percepiti, per il timore di rappresaglie, come fattore di rischio e di insicurezza. Vi furono situazioni in cui la gente li aiutò, perché credeva negli scopi della loro battaglia; altre in cui li soccorse come avrebbe soccorso altre persone minacciate di morte; altri contesti in cui tutta la popolazione insorse, come nelle quattro giornate di Napoli, una vera e propria epopea, con il risultato della autoliberazione e della resa dei nazifascisti, situazione che si ripeté in altre città, dove i partigiani da “ribelli e fuorilegge” si trasformarono in autentici custodi dell’ordine, in legislatori ed amministratori competenti di giustizia, capaci di dare vita a delle vere Repubbliche, definite “isole di libertà e di autentica democrazia”, anche se di breve durata. Ed infine vi furono italiani che si arruolarono nell’esercito della Repubblica sociale di Salò con sentimenti non troppo diversi da quelli che spinsero molti giovani a “salire in montagna”. La tragedia italiana fra il 1943 e il 1945, rispetto alle altre popolazioni coinvolte nell’unanime eccezionale movimento della Resistenza contro l’oppressione nazifascista (infatti la nostra resistenza armata nacque molto più tardi rispetto alle altre nazioni) fu nel fatto che la parola “onore” potesse avere in uno stesso paese due significati completamente diversi. La nostra guerra partigiana si connotò in modo diverso da quella voluta dagli alleati, precisamente quella sul modello francese, caratterizzata da nuclei di sabotaggio, servizi informativi, azioni di collaborazione subordinata: i nostri partigiani, invece, si proponevano una Patria da liberare, una democrazia da fondare, un onore da riscattare, una insurrezione nazionale da suscitare. In ciò i comitati di liberazione furono limitati e si dovevano riconoscere delegati del governo di Roma e trasferire tutti i poteri agli alleati, appena questi fossero arrivati, consegnando armi e sciogliendo le loro formazioni. Nonostante ciò, intatto rimane il patrimonio comune della Resistenza: lotta popolare per la libertà.

Nella Resistenza italiana la componente comunista, peraltro maggioritaria, si comportò sempre lealmente con i compagni di lotta che militavano in altre formazioni politiche. Scontri e dissidi fra rossi e bianchi sono casi isolati, salvo eccezioni come nella Venezia Giulia in cui la particolarità dell’ambiente e la preponderante presenza slava, la convivenza fra partigiani rossi e bianchi si rivelò molto difficile e fu causa di episodi di efferata gravità come la strage di Porzius, quando il contrasto ideologico esplose clamorosamente con l’ordine inviato dal PCI ai partigiani bianchi della formazione di Osoppo di passare alle dipendenze della formazione slovena. “Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo significa infatti che in questa regione non vi sarà né una occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera d’Italia. Si creerà insomma una situazione democratica.” Così Togliatti spiegava le motivazioni che avevano suggerito alla direzione del PCI l’emanazione di quell’ordine sconcertante, pur consapevole dell’odio feroce che gli slavi comunisti nutrivano per gli italiani. È vero che il PCI cercò di monopolizzare la lotta di liberazione e se ne servì nei decenni seguenti per oscurare agli occhi della società italiana i suoi rapporti con l’Unione Sovietica e le sue responsabilità storiche all’ombra di Mosca. Era inevitabile che questa operazione suscitasse diffidenza in quanti temevano l’avvento del comunismo e che tale diffidenza abbia di conseguenza nuociuto all’immagine della Resistenza nel paese. Queste, secondo lo storico Sergio Romano, sono alcune delle ragioni per cui la guerra di liberazione, a dispetto dell’omaggio che tutti abbiamo deciso di tributarle, non fu mai un indiscutibile e condiviso patrimonio nazionale.

Oggi infatti, proprio come per il Risorgimento, si cerca di oscurare la lotta partigiana per la libertà, per dare voce al “sangue dei vinti”. I vari libri che circolano, in cui si tende a capovolgere questo immane sacrificio italiano per la libertà con le stragi connesse non costituisce un problema in sé per sé, ma lo costituisce perché gli italiani faticano, per la scarsa conoscenza dei fatti, ad inquadrare le vicende infanganti e purtroppo anche veritiere nel loro contesto, perché molti non sanno e non sono interessati a sapere cosa sia accaduto prima. Inoltre la memoria della Resistenza italiana è familiare e locale, più che nazionale; non appartiene al patrimonio del paese nel suo complesso, non è unitaria nel senso che ha coinvolto un intero paese, ma è frammentata, legata ai campanili, ai territori di provincia, alle valli alpine. Ci furono crimini inammissibili, violenze commesse da banditi e veri fuorilegge, a volte annidati dentro le formazioni partigiane. E ci furono anche esecuzioni mirate, politiche, volute da un partito comunista locale che progettava la rivoluzione eliminando borghesi e sacerdoti ostili. Tutto questo va denunciato e raccontato proprio per onorare chi ha combattuto la guerra di liberazione in modo disinteressato e coraggioso per la salvezza personale e comune, per costruire un paese in cui le generazioni future, noi, potessimo vivere in pace, democrazia e prosperità. I comunisti pagarono un alto prezzo di sangue, non è corretto chiudersi nella convinzione che essi non si battevano per un’Italia libera, bensì per un paese plumbeo come l’Unione Sovietica di Stalin. Sono affermazioni valide oggi per le polemiche politiche, ma senza senso quando c’era da difendere la Patria e la libertà nella notte nazifascista. Perciò anticomunisti e comunisti rischiarono la vita per salvare scambievolmente quella degli uni e degli altri. Infatti quando il generale Perotti, uno dei capi del Comitato di liberazione nazionale del Piemonte, davanti al tribunale di accusa invita gli ufficiali ad alzarsi in piedi, si alza anche l’operaio comunista Eusebio Giambone, compagno di Gramsci nell’Ordine Nuovo ed anche lui come gli altri si unisce al grido “Viva l’Italia”. Dante Di Nanni, che tiene in scacco per ore i fascisti e prima di gettarsi nel vuoto saluta con il pugno chiuso, aveva 21 anni, immigrato dalla Puglia, operaio, studente nelle scuole serali, aveva combattuto come volontario nell’aereonautica. Voleva fare la rivoluzione bolscevica? Di sicuro combatteva i nazisti e seppe affrontare la fine con eroismo. Morì pure lui gridando “Viva l’Italia”. La guerra di liberazione non fu, per la grande maggioranza di coloro che combatterono, una guerra ideologica; vi presero parte uomini e donne di ogni estrazione sociale, di ogni fede politica: preti, donne, nobili, militari, contadini, studenti, operai, militanti politici. Il loro sacrificio deve essere sentito come un patrimonio dell’intera nazione non di una parte. È una verità forte e semplice come traspare dalle seguenti testimonianze.

“Su, coraggio ragazzi, è giunto il plotone di esecuzione. Niente paura. Ricordatevi che è meglio morire da italiani che vivere da spie, da servitori dei tedeschi”. Presa a schiaffi e sputi, racconta un testimone, Emilio Liguori, non si scompose, incassò impassibilmente e poi fiera come un’eroina del Risorgimento prosegue rivolta ai carnefici “Se percuotendomi volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo; esso è già annientato. Se invece volete uccidere il mio spirito vi dico che è opera vana: quello non lo domerete mai”. Poi rivolta a compagni: “Ragazzi, viva l’Italia, viva la libertà per tutti”. Sono le parole pronunciate da Cleonice Tomassetti prima di morire; una donna che aveva fatto una scelta di libertà e dignità dopo una vita drammatica. Fu fucilata insieme a 43 partigiani il 23 giugno 1944.

“Detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini. Usciva da un interrogatorio delle S.S. Il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà. Egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva; la luce della sua fede. Benedisse il plotone di esecuzione dicendo ad alta voce – Dio, perdona loro non sanno quello che fanno – come Cristo sul Golgota. Il ricordo di questo nobilissimo martire vive e vivrà sempre nell’animo mio”. È la testimonianza di un prigioniero: Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica. Il monito di cui noi dobbiamo farci carico nel nostro travagliato presente è la determinazione che animò i resistenti nel perseguire il rinnovamento delle istituzioni politiche, sociali ed economiche, persuasi che la democrazia politica non può sopravvivere disgiunta dalla democrazia sociale, come aveva chiaramente dimostrato il primo dopoguerra. Il Presidente Mattarella lo ha ribadito: garantire il lavoro per tutti è una priorità assoluta se vogliamo proseguire lungo la strada della libertà e della democrazia.
Agata Pinnelli

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