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Bari come Canosa come Hong Kong

Il saggio storico di Dominique Cascone premiato a Bari  

Dicembre 9, 2019
in Storia e dintorni
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Bari come Canosa come Hong Kong
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Tra i saggi storici-letterari premiati nell’ambito del concorso “LA PUGLIA E LE SUE VITTIME CIVILI DI GUERRA”, bandito dall’ Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra di Bari, spicca quello di Dominique Cascone Classe II A del Liceo “E. Fermi” di Canosa di Puglia, intitolato “Bari come Canosa come Hong Kong” come ha dichiarato la docente referente, professoressa Giulia Giorgio proponendolo per i lettori di Canosaweb.

“””L’episodio di Bari, avvenuto durante la II guerra mondiale, è stato uno degli eventi più tragici, e finora conservato in segreto dalla storia che nessun libro di testo ha mai raccontato quest’evento in maniera dettagliata. Siamo in Italia alla fine del 1943: il sole è tramontato da due ore e in quel cielo sereno è possibile ammirare una piccola falce di luna. Il mare è calmo e il porto di Bari è pieno di luci, come se non ci fosse la guerra e non ci fosse la paura per i bombardamenti tedeschi. Sospeso era, in pratica, il coprifuoco per volere degli alleati che, volendo accelerare i tempi impiegati negli scarichi delle merci, non ponevano troppa attenzione sulla pericolosità dell’illuminazione e delle attività notturne. Alcuni ufficiali di rotta delle navi, però, se avessero conosciuto il contenuto di una delle imbarcazioni in particolare, avrebbero avuto ben altre preoccupazioni. Nel porto erano presenti all’incirca 40 navi, alcune navi di tipo liberty, tra queste: la “SS John Harvey” Molti cargo erano carichi di merci convenzionali per un fronte di guerra: cibo, munizioni, equipaggiamenti e carburante. Ma quella nave, all’apparenza uguale alle altre, era segretamente carica di più di 100 tonnellate di bombe cariche di “gas mostarda”. Questo carico letale era costituito in massima parte da contenitori per bombe convenzionali, lunghi circa 120 cm, del diametro di 20 cm e che potevano contenere circa 30 chilogrammi di iprite l’una. In caso di utilizzo, ciascun ordigno, avrebbe potuto contaminare un’area di 40 metri di diametro. Nel caso della “SS John Harvey” l’iprite imbarcato era di tipo recente, prodotto durante le fasi precedenti del conflitto, ovvero l’Iprite Levistein H, una sostanza che gassifica facilmente con notevole aumento di pressione. Per questa ragione, era necessario un controllo costante da parte di specialisti che dovevano seguire il carico. Per svolgere questa mansione era necessario un gruppo di chimici specializzati nel maneggio e nella manutenzione di materiale tossico, che venne cosi imbucato insieme ad altri sei uomini come equipaggio.

Dai fogli del piano di imbarco del tenente Thomas Richerdson, che era l ufficiale addetto alla sicurezza e uno dei pochissimi uomini dell’equipaggio che ufficialmente sapeva del carico letale, veniamo a conoscenza della presenza di oltre 2.000 ordigni a gas iprite del tipo M47A1 nella stiva. Una cifra esorbitante che ci fa riflettere molto! Nel 1925 una conferenza internazionale a Parigi vietò l’uso di quelli che comunemente vengono chiamati “gas asfissianti”, ma riserve di aggressivi chimici, anche più pericolosi dell’iprite, sono possedute da quasi tutti gli eserciti, ufficialmente per eventuali ritorsioni se il nemico le usasse per primo. Così gli americani hanno spiegato – molti anni dopo – il carico di bombe all’iprite a bordo della Harvey. La nave era presente nel porto dal 26 novembre, ma considerato che il suo carico fosse segreto e che quindi dovesse rimanere sconosciuto, non aveva diritto a nessuna priorità nello scarico della merce, perciò sostò nel porto, ancorata al molo 29, fino al 2 dicembre, il giorno dell’inferno. Anche se nel primo pomeriggio e nei due giorni precedenti si era sentito volare alto un aereo a lungo, avanti e indietro e il centro radar lo aveva identificato come un ricognitore tedesco, il Vice Maresciallo dell’Aria britannico, Sir Athur Coningham, tenne una conferenza stampa nel pomeriggio dello stesso 2 dicembre assicurando i reporters al seguito alleato, che la Luftwaffe (aviazione militare tedesca) in Italia doveva ritenersi semplicemente disfatta. Egli disse di confidare nel semplice fatto che non riteneva più in grado i tedeschi di attaccare Bari. Dichiarò di ritenere “un personale affronto ed insulto” se la Luftwaffe fosse riuscita a tentare la più piccola e significativa azione in quell’area. Nessuno tuttavia, era realmente convinto che la resistenza delle forze aeree tedesche fosse stata realmente spezzata. Ad esempio, il capitano dell’esercito britannico A.B. Jenks, che era il responsabile per la difesa del porto, sapeva perfettamente che le misure contraeree adottate erano insufficienti e che la preparazione dello stesso personale addetto alla difesa era inadeguato, ma la sua voce e quella di pochissimi altri ufficiali, rimaneva inascoltata rispetto ai cori compiacenti della restante parte degli ufficiali, tutti facenti parte del seguito del Vice Maresciallo dell’Aria, Sir Coningham.

Alle ore 19.25 suonarono le sirene dell’allarme aereo. Tutte le luci si spensero. Un rombo di aerei arrivò su Bari. Centinaia e centinaia di frammenti metallici piovvero dal cielo per sabotare i radar baresi, mentre candelotti illuminanti collegati a piccoli paracaduti scendevano lentamente e illuminavano il porto. Alle 19.30 ecco le prime bombe e le prime esplosioni. Le navi erano tanto vicine che le bombe cadute in acqua furono molto poche. Alcune navi bruciavano, altre affondavano, altre, incendiate, rotti gli ormeggi, andavano alla deriva, avvicinandosi alle navi non colpite. Le navi che nella stiva trasportavano esplosivi dapprima si incendiarono e poi finirono per deflagrare e colpire tutto il porto e anche molte case della città vecchia. I vetri delle abitazioni di mezza Bari andarono in frantumi. Cominciò così l’unico episodio di guerra chimica della seconda guerra mondiale; un disastro le cui conseguenze si faranno sentire per più di mezzo secolo.

In pochi minuti la città venne messa a ferro e fuoco. Molti soldati per sfuggire alle fiamme si tuffarono in mare e furono contaminati dal gas letale che ormai si era diffuso sul fondale. “Ma se il bombardamento” racconta Paolo de Palma, testimone oculare della vicenda, “non si trasformò in un vero e proprio massacro per i cittadini baresi lo si deve al vento che si mise a spirare verso levante, evitando così un pericolo devastante. Forse fu San Nicola che volle ancora una volta tutelare la sua città”. È un fatto che in tutti i posti di mare una brezza, la sera, spira dal mare (che si raffredda più rapidamente) verso la terra (che rimane per un po’ più calda); e quindi, a Bari, da levante verso ponente. Quella sera la brezza spirò da ponente verso levante e portò in alto mare i gas venefici dell’iprite. Si conterà la perdita di oltre trentottomila tonnellate di materiali, ventisette navi affondate e distrutte, un’altra ventina danneggiate più o meno seriamente. Il tributo di sangue del personale militare alleato sarà di oltre mille vittime, quasi pari a quello pagato dalla popolazione italiana, anche se i numeri esatti non verranno mai accertati definitivamente. Sull’altro fronte, invece, ci saranno una perdita di soli due aerei. Una cifra davvero irrisoria. Il mattino successivo, ai sopravvissuti, si presentò uno spettacolo del tutto catastrofico, regnava l’assoluta devastazione. Una parte di Bari era ridotta in rovine, particolarmente colpita sembrava l’area della città vecchia. Parti del centro abitato e del porto stavano ancora bruciando e lunghe nuvole di fumo nero salivano in cielo. Circa 800 uomini dovettero essere ricoverati negli ospedali della zona.

Fortunatamente Bari era la località dove gli Alleati avevano deciso di concentrare un discreto numero di ospedali da campo con le relative attrezzature. Le vittime della contaminazione cominciarono ad affluire. La sorpresa dell’attacco e l’ignoranza della presenza della sostanza iprite furono la causa di molte morti. Di fatti sin dal 1942 gli alleati avevano messo a punto un kit di pronto soccorso da utilizzarsi in caso di contaminazione. I medici non avevano idea delle cause di quei sintomi, fin da subito troppo strani per essere causati solo da delle bombe. I pazienti venivano curati come si curavano le vittime per le ustioni e le conseguenze delle esplosioni. I sanitari e gli infermieri che avrebbero dovuto prestare la prima assistenza ai feriti, senza nessun tipo di informazione su quanto fosse accaduto, non fecero levare gli abiti contaminati di dosso a quei marinai che erano caduti in acqua e che erano stati avvolti dalla letale pellicola oleosa composta da nafta ed iprite. Le vittime colpite dal gas erano scosse da colpi di tosse violenti ed accusavano difficoltà respiratorie, temporaneamente accecati, con un polso sempre più debole, l’agonia delle bruciature veniva spesso accompagnata dai danni prodotti dall’iprite gassosa con tremende ustioni alle ascelle e all’inguine dove la pelle si staccava come avviene per le ustioni più gravi. Molte persone iniziarono a morire e alcuni medici iniziarono a sospettare dell’uso di agenti chimici. alcuni puntarono il dito contro i tedeschi, immaginando che volessero riesumare la guerra chimica.

I sospetti furono confermati quando un frammento di un contenitore per bomba d’aereo venne ritrovato alle spalle del porto. Il frammento venne identificato come una bomba americana del tipo M47A1, un modello che poteva essere caricato a gas iprite. I tedeschi vennero così subito eliminati dalla lista dei sospetti ed i britannici espressero ai loro alleati americani biasimo per l’accaduto. Tuttavia non si riusciva ancora a comprendere come e dove si fosse potuto originare l’incidente delle bombe all’iprite. Il medici iniziarono a conteggiare il numero dei deceduti, suddividendoli secondo gli equipaggi originari di appartenenza. Quindi si ricostruì in un grafico, attraverso le scarne testimonianze, la posizione della navi nel porto al momento dell’attacco. La maggioranza delle vittime risultava in larga parte, proveniente dagli equipaggi delle navi ancorate vicino alla “SS John Harvey”. Solo allora, davanti all’evidenza, gli americani consegnarono alle autorità britanniche del porto, la documentazione che rivelava loro, la vera natura del carico della “SS John Harvey”. Il segreto militare venne posto sull’intera faccenda; si decise che nei rapporti formali con la stampa, sia i britannici che gli americani, avrebbero potuto parlare dei risultati devastanti del raid germanico ma non del ruolo che il gas iprite aveva giocato nell’immane tragedia. Negli anni a seguire l’iprite continuò ad intossicare e ad uccidere, nonostante la bonifica del porto. Stime prudenziali parlano di almeno duecento casi di ustionati di cui cinque con conseguenze mortali. Esposti in primo luogo i pescatori, ma anche negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, ragazzini che raccoglievano metallo nel porto, e poi, nel 1951, dei civili che raccoglievano legna impregnata di iprite proveniente da una nave affondata.

Sulla tragedia dei civili baresi e dei militari Alleati il colonnello medico Stewart F. Alexander, seguito dal dottor Cornelius P. Rhodhes, costruì un’ipotesi di terapia per la leucemia, basandosi sul fatto che il “gas mostarda” era capace di formare un rapido calo dei globuli bianchi. Fu così che, grazie a successivi studi nell’Università di Yale, a New York, un derivato dell’iprite, la mecloretamina, divenne uno dei primi farmaci antitumorali. Di questo accaduto mai nessuno risponderà dei danni causati dalla paura dell’insorgere di una nuova guerra chimica. Numerosi furono i bombardamenti che si subirono nella nostra provincia durante l’inverno del ’43.

Sulla nostra città, Canosa, il 6 novembre un JU 88 (un bombardiere medio) lanciò un carico circa di 2.000 kg di bombe suddiviso in 6. Come Bari, anche Canosa subì un bombardamento per un mancato coprifuoco. L’oscuramento era stato messo in secondo piano da una festa da ballo notturna organizzata dagli Inglesi nel salone della Gil,nei pressi dell’attuale ufficio postale centrale, le cui finestre non erano schermate. In sostanza a Canosa non furono rispettate da parte delle truppe inglesi le norme di sicurezza passiva. Pertanto in un territorio completamente al buio, Canosa risultò visibile dall’alto e perciò soggetta a sgancio di bombe da parte di aerei nemici impegnati in attacchi di disturbo. Ore 21:15, iniziò il bombardamento. Quella notte l’allarme suonò successivamente all’impatto della prima bomba. La maggior parte delle bombe cadde sul centro storico, nella zona del castello. Subito dopo che il rombo dell’aereo svanì in lontananza; tutta la popolazione si prodigò nei soccorsi; i corpi estratti dalle macerie furono trasportati, con barelle di fortuna, negli edifici scolastici “Mazzini” e “Bovio” dove gli inglesi avevano allestito, già da qualche tempo, degli ospedali militari. In questo attacco 53 persone persero la vita e altre dieci rimasero ferite.

La violazione delle norme fu denunciata, ma ignorata a causa dalla requisizione dei collegamenti telegrafici da parte degli alleati. Ma perché bombardare Canosa? Per oltre sessant’anni questa domanda non ha trovato risposta, avvolgendo la tragedia in un alone di mistero e di segretezza. Così quella vicenda ha generato tutta una serie di ipotesi e supposizioni alcune volte anche diffamanti e senza alcun fondamento. Ci fu un lunghissimo rimpallo di responsabilità, di quelli cui la storia italiana, purtroppo, ci ha abituati anche negli anni successivi al Dopoguerra. Molte furono le abitazioni danneggiate tanto che ancora alcuni anni dopo, nell’ immediato dopoguerra, la città dovette fare i conti con una grave carenza di abitazioni. Ancora oggi sono visibili i segni delle esplosioni che causarono danni ingenti come il crollo del campanile dell’attuale chiesa di san Francesco, che fu ricostruita dopo una decina di anni ex-novo.
” Per molto tempo le statue dei Santi Biagio e Francesco furono custodite nel salone di casa mia” racconta la mia cara nonna “dove il giorno prima avevamo festeggiato il mio sesto compleanno. Ricordo, come fosse ieri, che dopo cena ero seduta con le gambe incrociate sul divano senza scarpe, mentre gli adulti ascoltavano dalla radio le notizie della guerra. All’improvviso sentì un grande boato e mi ritrovai tra le braccia di mio nonno, il quale correva verso il rifugio sotterraneo costituito da alcune grotte, nei pressi della zona del cimitero. Quella notte sembrava interminabile e man mano che arrivavano i sopravvissuti si veniva a conoscenza di alcuni palazzi interamente crollati e di famiglie distrutte. Fra le vittime certe c’erano le tre sorelle Di Monte che io conoscevo molto bene, perché oltre ad essere vicine di casa, erano delle bravissime sarte che collaboravano nella realizzazione degli addobbi della chiesa. Trascorsi la maggior parte del tempo a disperarmi, poiché nella fretta della fuga, le mie scarpette erano rimaste sul tappeto davanti al divano, per tanto avevo i piedi congelati e non potevo spostarmi nella grotta come avrei voluto. All’alba, quando uscimmo dal rifugio, fu molto faticoso respirare e procedere verso casa tra la polvere e le macerie. Lo spettacolo che avevamo dinanzi era mostruoso e non potrò mai dimenticarlo”.

Studiare la storia non ridarà indietro la vita alle vittime delle guerre, ma riuscirà a salvare le vite nel futuro. I bombardamenti, come tutti i restanti avvenimenti storici, ci portano a riflettere sull’atrocità commesse dall’uomo e sulla spasmodica ricerca del potere. Un esempio attuale di conflitto tra volere del popolo e interesse dello Stato è la vicenda di Hong Kong, nella quale i cittadini manifestano nelle piazze per riuscire a difendere i propri diritti.La violenza, qualsiasi sia la sua forma, non è giustificabile, ma anche se questa nozione viene data quasi per scontata ci ritroviamo sempre al punto di partenza con una nuova insurrezione. La violenza non riguarda solo la sfera fisica, ma anche quella psichica. Nell’esempio fatto precedentemente si ha appunto una pressione da parte dello Stato che diventa una forma di prepotenza e abuso di potere. Concludendo, possiamo affermare che l’egoismo sociale ed etico non dà spazio alla ragione e all’altruismo, soffocando la libertà individuale, in quanto la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri e l’egoismo ci porta inesorabilmente a varcare i confini dell’indifferenza.”””

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