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Finché c’è guerra c’è speranza

Le riflessioni del Professor Vincenzo Lionetti sulla pandemia

Settembre 6, 2020
in Storia e dintorni
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L' Autumn School di Ristoceutica
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Le parole sono importanti e per questo mi chiedo ancora come mai sia stato scelto il termine guerra, da chiunque, sin dagli inizi di questa pandemia. “Siamo in guerra!”, si è subito detto. Ma cosa ci abbia spinto ad accettare questa metafora resta un interrogativo ancora attuale. “Un destino comune” è per alcuni l’ovvia risposta (https://www.linkiesta.it/2020/04/guerra-coronavirus-lessico/). Ma io non mi sono fatto persuaso, come scriverebbe Camilleri. In linea generale le parole non si scelgono a caso, sebbene a volte accada che siano loro a scegliere noi. Eppure, ritengo di non essere stato il solo a chiederselo dai vertiginosi giorni di lutto e stress vissuti al chiuso senza l’orologio alle certezze inossidabili dei giorni di rientro dalle vacanze. I dizionari ci dicono che la parola guerra, un sostantivo femminile di radice germanica, “serve a descrivere un conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi di persone, nella sua forma estrema e cruenta, quando cioè si sia fatto ricorso alle armi.” Per parlare di guerra non basta subire morti e feriti. Questi li fanno anche le stragi, le catastrofi, i disastri ambientali e le epidemie.

E se la scelta della parola guerra, al posto di COVID19, fosse stata un cambio di passo voluto da qualche consulente sulla base della risposta emotiva di un campione di intervistati? Non sarebbe la prima volta vista l’evoluzione lessicale che ha subito il termine effetto serra fino a giungere alla recentissima definizione di crisi climatica dopo essere stato chiamato cambiamento climatico. E non sarebbe sbagliata una revisione visto che le parole rimandano a principi e criteri attorno a cui costruire le forme per ogni azione condivisa di adattamento. Ricordo bene che a poche ore dal ping-pong di notizie da Wuhan a Codogno, quando il naturale salto di specie del virus dal pipistrello al pangolino e da questo a noi era stato già accertato dagli scienziati, nacque uno scoop: il coronavirus, o meglio il SARS-CoV-2, è una sofisticata arma letale creata dall’ uomo in un laboratorio BSL4 di Wuhan e da lì sarebbe sfuggito di mano per distrazione, forse. Lo scoop sganciato a mezzo stampa, sebbene precipitasse tra gli innumerevoli depistaggi (fake news) messi in rete in quei giorni da qualche anonimo perditempo piuttosto che da altri, riuscì a sorprendere anche il più accanito telespettatore delle edizioni straordinarie dei TG sicché il termine guerra sguazzava indisturbato nel linguaggio comune. Il cambio di lessico, a mo’ di pistola fumante o anello mancante, è bastato per innescare la fantasia di chiunque fuggisse dalla verità, tra i nostri congiunti o rappresentanti, senza che questi se ne siano mai ravveduti. E come spesso accade in simili frangenti, dalle parole ai fatti c’è un passo. Nonostante le solide evidenze scientifiche da parte di autorevoli esperti, con e senza scorta, cercassero ripetutamente di mettere ordine al caos, una guerra tra gli Stati Uniti e la Cina (il secondo maggiore creditore straniero americano) è mancato poco che scoppiasse davvero, mentre l’oro saliva, il dollaro scendeva e la Federal Reserve stampava soldi, grazie anche ad un uso avventuroso delle parole, manco fossimo tornati ai tempi di Papa Giulio II.

Ma chi vuole una nuova guerra oggi? Guerra vuol dire anche “una situazione giuridica in cui ciascuno degli stati belligeranti può, nei limiti fissati dal diritto internazionale, esercitare la violenza contro il territorio, le persone e i beni dell’altro stato, e pretendere inoltre che gli stati rimasti fuori del conflitto, cioè neutrali, assumano un comportamento imparziale.” E noi non ci siamo fatti mancare neanche quelli. Mentre l’Italia insegnava al mondo occidentale come si chiudono le scuole, le università, le parrocchie, la maggior parte degli esercizi commerciali destinati al pubblico, gli stadi, intanto che restavano aperti i supermercati, i forni, i mercati generali, le farmacie, le autofficine, le caserme, gli ospedali, le case di riposo, molte aziende, le agenzie viaggi e quelle di stampa, i benzinai, gli autogrill, i porti, oltre alle decisioni di governo, già si delineavano le posizioni neutrali di alcune nazioni dell’Europa settentrionale, e mi riferisco ai paesi frugali, oltre che alla solita Svizzera.

Il “Siamo in guerra!”, piuttosto che il delicato “Siamo in pericolo!”, diventa subito virale grazie ai social. E da qui impazza lo sventolio di bandiere per le strade, gli inni nazionali suonati con la qualsiasi, o urlati dalle finestre, i flash mob in piazza e gli storytelling emozionali alla TV, le ronde dei sindaci per le strade o sul proscenio dei social networks, fino alla comparsa degli eroi. Perché ogni guerra che si rispetti deve avere degli eroi. E non mi riferisco a quelli finti della Marvel, cui volevano somigliassimo tra twitter e vignette, bensì ai martiri veri delle ASL. Tutti, in poco tempo, hanno imparato a sostituire la parola pandemia, l’allarme dichiarato dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo 2020, con la parola guerra, nonostante sia ripudiata dall’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite e, in Italia, dall’art.11 della nostra Costituzione, sebbene ammessa solo come difesa contro le aggressioni esterne. E proprio in quei giorni il coronavirus è spogliato della sua vera identità, cioè un’entità biologica con caratteristiche di parassita obbligato di cui può sapere solo chi ha studiato, per essere subito presentato alle masse alla stregua di un latitante cui dare la caccia senza quartiere, sebbene, a nostra insaputa, convivessimo con lui da giorni prima del Festival di Sanremo o che la carneficina esplodesse lungo le risaie della foce del Po e sulle splendide montagne bergamasche fino a violare le barricate di Milano, ovvero le sue RSA. Un cecchino seriale a RNA che ha travolto la locomotiva economico-finanziaria del nostro Paese, come quella di altri paesi non abituati alla povertà, realizzando uno scempio tanto violento da richiedere l’intervento dell’esercito durante lo straordinario silenzioso sacrificio di un intero popolo. Ecco che i medici di famiglia, i virologi, gli infettivologi, i rianimatori, gli infermieri, gli epidemiologi e tutti gli operatori sanitari, quelli dei turni al letto dell’ammalato, dei laboratori fino a quelli che partono volontari dalla base aerea di Pratica di Mare, vengono prima circondati da un sempre più intenso chiacchiericcio amico, quello di chi non dorme sulle scrivanie, delle ospitate in TV e dei leoni da tastiera, e poi, tra una pronazione e l’altra in Terapia Intensiva, vengono ridotti allo stato laicale, al silenzio. Il passo è breve. Qualcuno tra gli esperti, ormai smarritosi nella ricerca dei consensi, arriva anche a dire, in pieno lockdown, che ora le decisioni tocca prenderle alla politica, mentre altri, dandosi alla macchia, hanno puntato tutto sull’estinzione del coronavirus o sulla sua trasformazione in qualcos’altro nonostante l’impennata dei contagi di agosto (+ 7379 in 24 ore solo in Francia).

Sarà questa subdola infezione, causa di una malattia cinica che ad oggi, secondo i bollettini (di guerra) ufficiali, ha fatto più di 830.000 vittime in tutto il mondo in poco più di 7 mesi, la legittimazione del lessico da guerra? Al leggermi, altri si potrebbero chiedere: oppure il rischio biologico è solo l’ennesima suggestione di un mondo sempre più virtuale? o anzi un oscuro complotto internazionale che fino a quando non ci toccherà da molto vicino lo continueremo a guardare da molto lontano con scetticismo? E’ chiaro che queste ultime due insolite domande sono il frutto di una totale mancanza di insight o di consapevolezza, tipico sintomo di chi si ammala senza saperlo o decide di andare in guerra, e che se non ce l’hai ti uccide. Oggi la mancanza di insight potrebbe essere alla base dell’incomprensibile rifiuto di quelle semplici regole (igiene, mascherina certificata, distanziamento, quarantena) che abbiamo giurato di seguire durante il lungo coprifuoco di questo anno bisestile, tra una passeggiata con il cane, la coda davanti al supermercato, le lacrime davanti al bancomat, lo smart working, i dpcm e la cassa integrazione. Regole ancora necessarie per permettersi una vita normale, sebbene una inattesa maggioranza le abbia volute cancellare dopo 24 ore dal “liberi tutti” ignorando che il virus cammina sulle nostre gambe solo se vogliamo noi.

Ed ecco che, all’improvviso, arriva lui, il rappresentante di un capitale umano cui spesso un titolo di studio non crea valore aggiunto, il complottista portatore sano a sua insaputa, quello bravo che ostenta coraggio, sebbene abbia provato di tutto per proteggersi dal contagio, quando le mascherine, il lievito e la farina non si trovavano, mentre irrompe con una domanda da freelance: perché preoccuparsi ancora di un’infezione da fighetti biologi che ha causato appena 830.000 morti oltre a 24 milioni di contagi in tutto il mondo?

Ed è proprio nell’attimo in cui ascolti questa dissonanza cognitiva che realizzi quanto sarà difficile difendersi dalle aggressioni esterne della porta accanto, capaci di alimentare confusione e dissensi, di scatenare litigi per stanchezza e di allontanare da soluzioni semplici mentre sopraggiunge tra i più fragili, in 3-4 settimane dal contagio, il silenzio di una terapia intensiva. Giacché si ama parlare di guerre, in Vietnam, in quasi vent’anni, ci sono stati 1.353.000 decessi. Eppure, sebbene sia finita da decenni e i sopravvissuti siano sempre meno, nessuno la mette in discussione né la rivuole. Invece, COVID-19, con i suoi 176 medici, 41 infermieri e 121 sacerdoti ad oggi caduti solo in Italia, sembrerebbe volere dell’ altro.

Come in tempi di guerra, anche la pandemia continua a generare incertezze e tanta desolazione fatta di iniquità, disuguaglianze, solitudine, disoccupazione, povertà, fragilità, sindrome post-traumatica da stress, oltre che una stima del PIL italiano nel II trimestre 2020 sotto il 12,8% rispetto al trimestre precedente (https://www.istat.it/it/archivio/pil). Tra queste debolezze compare la parola “sciacalli” (https://www.huffingtonpost.it/entry/attenti-agli-sciacalli-del-coronavirus_it_5e6b4b3dc5b6bd8156f521e9), come quelli che durante le guerre ne approfittano, contravvenendo alla legge o servendosi della giurisprudenza per trovare un inganno, truffando il bene comune e danneggiando le classi più deboli, senza rimorsi. Non mancano gli affabulatori di professione che ricorrono a giochi verbali di prestigio e a maieutiche di seconda mano, non tralasciando la via dei due forni e l’accordo tra sedie vuote, pur di ingraziarsi un nulla osta, che non sarà mai tanto forte da resistere al virus. E si riconoscono anche gli stragisti dell’opportunismo, annichiliti dal loro egoismo, che pur di giungere là dove agognano da qualche tempo sono disposti anche a mentire, mettendo a rischio la vita degli altri stando fermi nelle retrovie, mentre muovono a supporto dell’affidabilità delle loro scelte il plurale maiestatico o antiche questioni di classe e riesumano bandiere sepolte da anni a causa della loro cupidigia, così come accade in guerra per i disertori, i traditori o per i lavoratori della borsa nera. Uomini molto diversi da chi continua a servire nell’anonimato il proprio Paese rischiando in prima linea, come vera carne da cannone, come i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari e della protezione civile, i religiosi, le forze dell’ordine, o gli scienziati precari che manipolano il virus in laboratorio alla ricerca disperata di un vaccino o di una cura.

E mentre penso alla parola guerra di questi mesi di tracciamenti, mi vengono in mente le elezioni e il referendum costituzionale. Proprio loro, i più alti appuntamenti democratici che verranno in Italia, oltre alle elezioni presidenziali statunitensi e a quelle locali in Polonia, in Costa d’Avorio e ad Hong Kong. In tempo di guerra non si vota, a volte accadono dei colpi di stato, mentre in tempo di COVID19 le elezioni sono legittime a dimostrazione che non siamo in guerra e la metafora è infelice. “Ma votare non sarebbe pericoloso di questi tempi?” Chiede l’uomo della strada. Di questi tempi il pericolo potrebbe dipendere più dai nostri comportamenti in coda alle urne e durante i comizi, mentre si cede allo scatto di un selfie con il proprio candidato, nonostante manchi il reciproco riconoscimento dello stato di salute di ognuno, e si forzi ogni regola anti-COVID19 solo per garantire il successo di quel singolo candidato piuttosto che quello primario del bene proprio e degli altri. Tuttavia, come in tutte le guerre che si rispettino, la propaganda aiuta. Mentre il contagio dilaga tranquillamente da Ovest a Est, negli altri Stati di confine, in Nord-Africa, nonostante la carenza di dati (https://www.focusonafrica.info/covid-19-in-africa-la-carenza-di-dati-rischia-di-mascherare-lepidemia-silenziosa/), e oltreoceano, la previa riapertura senza controlli di discoteche, ristoranti, pizzerie e resort di lusso, centri storici turistici, come l’autorizzazione allo svolgimento di lunghi concertoni in piazza, l’organizzazione degli assurdi COVID party fino ai carnai da spiaggia, dove il più attento porta la mascherina sotto il naso, sotto il mento o al polso, sembrano essere stati uno sfortunato esperimento sociale per dimostrare che ci si può fidare anche di questo virus e si può tornare alle urne con serenità, come se fossimo già al passato. Poco importa se grazie anche al rientro del milione e mezzo di italiani dalle vacanze all’estero siano tornati a salire i contagi (che non vuol dire i malati), i decessi, alcuni reparti di malattie infettive si siano saturati (https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2020/08/31/coronavirusposti-letto-finiti-in-malattie-infettive-sassari_9e6ab5fa-6a5a-430a-9b23-6cc287b9189e.html), in assenza di un vaccino tra migliaia di dati, e mentre si stanno aprendo le porte delle scuole che rischiano una nuova chiusura per prudenza o paura. Del resto in tempo di guerra, tra mille difficoltà, le scuole è difficile che chiudano, ma noi non siamo in guerra.
Prof. Vincenzo Lionetti

Tag: CoronavirusProfessor Vincenzo Lionetti
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